La gestione delle armi da fuoco. Statistiche e modalità di porto per gli operatori di polizia – Parte 1^

Durante i corsi di tiro rivolti agli operatori di polizia richiediamo di esporre le loro esperienze vissute durante il lavoro e, in particolare, i dettagli e le circostanze ove, loro malgrado, sono stati costretti ad estrarre, puntare o esplodere dei colpi con l’arma in dotazione. Si ritiene questo continuo report assolutamente prezioso, sia ai fini statistici sia ai fini dell’analisi delle dinamiche degli scontri a fuoco.A queste informazioni, poi, si aggiungono sempre preziosi dettagli che riguardano le fasi successive all’impiego delle armi e quindi le conseguenti ripercussioni giuridiche e psicologiche.Ma l’argomento che più si ripete e su cui si interrogano maggiormente gli operatori riguarda la modalità di porto dell’arma. Quando parliamo di questo argomento con i partecipanti riscontriamo una grande confusione circa il porto d’armi e cosa si intende per utilizzare in maniera operativa un’arma.

(…)RICORDIAMO: le armi non sparano da sole!Attenzione: sotto l’effetto degli ormoni dello stress (adrenalina e noradrenalina) oltre ai deficit del campo visivo ed uditivo, sarà compromessa la motricità fine (necessaria per disinserire la sicura manuale), sarà estremamente complicato attivare azioni che prevedono movimenti coordinati (prendere il caricatore da un fianco ed inserirlo, inserire il colpo in camera e rispondere al fuoco). Per ragioni di sicurezza andrebbero bandite tutte le cattive abitudini che, di fatto, renderebbero incapaci gli operatori all’utilizzo responsivo ed efficace dell’arma da fuoco. Le chiavi della sicurezza risiedono all’interno di ogni operatore, destinatario e responsabile di tutte le conseguenze (fisiche, psicologiche, giuridiche) pre, durante e post conflitto.Occorre che si pretenda un addestramento utile alla gestione di uno scontro armato, che sia continuativo e impartito da formatori specializzati e con esperienza operativa, non sportiva. Le statistiche del F.B.I. (USA) e report italiani Ancor prima di parlare di protocolli e modalità prestabilite dalle direttive delle singole amministrazioni delle forze di polizia nazionali o locali, ci sono alcuni fattori che riguardano appunto i report statistici che vanno attentamente studiati e compresi.Partiamo dalle statistiche fornite dalla Uniform Crime Reporting programma U.C.R. del F.B.I. degli Stati Uniti, tra gli anni 2003-2012. I dati emersi hanno riportato un totale di 493 agenti di polizia uccisi in servizio (negli USA) durante gli scontri a fuoco e nell’analizzare la distanza degli scontri è emerso che:

  • 234 agenti morirono ad una distanza dall’aggres-sore tra 0 – 5 piedi (0 metri – 1,5 metri);
  • 86 agenti morirono ad una distanza dall’aggressore di tra 6 – 10 piedi (1,8 m – 3 m);
  • 71 agenti morirono a una distanza dall’aggressore di 11 – 20 piedi (3,3 m – 6,9 m).

Stando alla lettura di questo report ufficiale, assistiamo ad un interessante dato relativo alle dinamiche, e cioè che ben 320 agenti sono stati attaccati e morti entro una distanza massima di 3 metri. Questo dato inoltre rappresenta, nel periodo analizzato, ben il 65% di tutti i poliziotti deceduti. È evidente che, in un eventuale scontro a fuoco entro i 3 metri, i tempi di reazione con un’arma corta devono essere molto rapidi. Di conseguenza, sarà davvero difficile, o quasi impossibile, eseguire processi motori di arretramento del carrello per camerare il colpo in canna, andare in puntamento e premere sul grilletto. A questo si aggiungono gli effetti psico-fisiologici derivanti dallo stress Le statistiche di F.B.I. ci aiutano a comprendere cosa può accadere in uno scontro a fuoco. Inoltre, aiutano gli esperti a determinare e valutare alcune variabili importanti quali le distanze, gli scenari, i comportamenti degli operatori e degli aggressori, ecc. Le statistiche italiane purtroppo non sono riportate da dati ufficiali come quelli pubblicati periodicamente negli Stati Uniti d’America; probabilmente, determinate dinamiche restano purtroppo segretate all’interno degli archivi delle singole amministrazioni o, come spesso capita,esclusivamente nelle relazioni degli operatori e dei periti specializzati nei rilievi balistici.

Una recente ricerca, a cui va il plauso per l’iniziativa, è stata fatta negli anni dal T. Col Alessio Carparelli istruttore di tiro con oltre 25 anni di esperienza maturata in servizio nell’Arma dei Carabinieri, che prendendo a campione operatori di polizia e militari ha riportato alcuni elementi di particolare interesse.
Il lavoro di ricerca ha potuto beneficiare del resoconto di ben 80 incidenti critici di cui 46 scontri a fuoco, e nei quali gli operatori sono stati oggetto da colpi di arma da fuoco. In riferimento alle distanze degli scontri a fuoco, dallo studio della ricerca in questione sono emersi alcuni dati significativi:

  • il 12% degli scontri rientravano in una distanza tra 0 – 1 metro;
  • il 12% degli scontri rientravano in una distanza tra 1 – 3 metri;
  • il 12% degli scontri rientravano in una distanza tra 4 – 6 metri;
  • il 18% degli scontri rientravano in una distanza tra 7 – 10 metri;
  • il 16% degli scontri rientravano in una distanza tra 10 – 15 metri;
  • il 12% degli scontri rientravano in una distanza tra 15 – 30 metri;
  • il 18% degli scontri rientravano in una distanza oltre 30 metri.

Stando alle percentuali, gli operatori che si sono trovati in uno scontro ravvicinato entro i 6 metri sono risultati il 36%; ad una percentuale lievemente inferiore, ovvero al 34%, appartengono gli scontri avvenuti ad una distanza tra i 7 e i 15 metri, a seguire al 30% gli scontri relativi a distanze lunghe oltre i 15 metri. È opportuno sottolineare come la predetta statistica ha un dato ed una impronta soggettiva, forte della disamina e dei racconti degli intervistati, tant’è che le dinamiche che hanno riportato lo scontro a fuoco con la morte degli operatori risulta solo del 2,2%, rispetto a quanto riscontrato per le lesioni lievi pari al 22,2%, gravi all’8,9%, invalidanti al 4,4%. La percentuale più confortante riguarda gli operatori che non hanno riportato alcuna lesione pari al 62,2%. I fattori di impiego delle armi riguardanti le circostanze, i tempi di reazione e le distanze,
giocano un ruolo molto importante! Bisogna inoltre considerare alcuni fattori che possono complicare o ritardare la capacità
dell’operatore di caricare la pistola in uno scenario dove il conflitto si svolge a breve
distanza quali:

  • lesioni o incapacità di utilizzo di una o entrambe le mani;
  • lesioni o incapacità di impiego di un arto;
  • la necessità di garantire protezione ad un soggetto tutelato;
  • le ipotesi in cui si trasporti un oggetto;
  • le ipotesi di conduzione di un soggetto;
  • le ipotesi in cui la corta distanza possa creare difficoltà nella ritenzione e nel corretto puntamento dell’arma (si pensi ad esempio alla incapacità di utilizzo se afferrata da terzi per deviarne il puntamento o nel tentativo di sottrazione della stessa) ecc.

Stando a tali considerazioni potremmo affermare che, portare un’arma “carica” ci lascia un vantaggio molto evidente. Soprattutto quando le distanze sono ravvicinate e la nostra vita sia in pericolo. Di contro, alcuni esperti riferiscono che eseguire l’azione meccanica di scarrellamento, porta l’operatore a creare una predisposizione psicologica ad affrontare e gestire il confronto armato. Una condizione mentale, quindi, proiettata allo scontro a fuoco. Gli stessi riferiscono che tale azione, in determinate circostanze, potrebbe attivare anche uno scoramento e quindi la resa di eventuali soggetti a cui parrebbe sufficiente il gesto ed il rumore del carrello della fase di armamento (si tratta di supposizioni che vanno debitamente contestualizzate).